Vecchi mestieri

La castagnatura

Per gli abitanti della Valle del Randaragna e soprattutto per gli abitanti di quei borghi ,come Casa Moschini, che sorgono intorno ai 900 m s.l.m, un elemento più di ogni altro ne ha permesso la sopravvivenza , garantendo ogni anno una risorsa indispensabile e più versatile di quanto immaginiamo ; la castagna.
Ed è proprio questo particolare frutto che ha permesso di sfamare generazioni e generazioni di famiglie.
Oltre a semplici ricette come i “ballotti” (sono le stesse castagne che vengono cotte bollendole in abbondante acqua salata per circa un ora e mezza e sono preparate durante il periodo della raccolta, ma anche per tutto l’ inverno e la primavera, fino a maggio/giugno), “frugiate” (sono semplicemente le castagne arrosto, ovvero castagne frasche raccolte e incise con un coltello, poste all’ interno di apposite padelle di ferro con il fondo bucherellato, e poste sulla brace ardente), la vera forza e il vero lavoro che stava dietro a questo frutto è il passaggio che ne permette la trasformazione in farina di castagne o “farina dolce”.
Le castagne iniziano a cadere al suolo intorno ai primi di ottobre, e dalla seconda metà del mese aveva inizio la raccolta, ma prima di essa occorreva svolgere un lavoro di pulizia del suolo del castagneto, liberarlo da rovi, erba e foglie in eccesso era necessario per rendere la raccolta più facilitante possibile.

Le castagne dopo raccolte, venivano depositate in appositi stanzoni detti “seccatoi” con il pavimento fatto di travi e assicelle di legno un poco distanziate tra loro e posto al secondo piano di un fabbricato, mentre nel sottostante piano terra veniva , e viene ancora oggi acceso il fuoco, che non verrà più¹ spento per la durata dell’ intero processo (circa 40 giorni), al termine del quale ogni castagna risulta perfettamente secca. Quindi , dopo seccate, venivano “pestate”, cioè sbucciate, sbattendole e bastonandole entro dei sacchi fino a quando la buccia non era tutta triturata per poterla estrarre; poi in seguito, già da prima della guerra (1940-1945), le castagne venivano invece poste in appositi recipienti, detti “buzzirri” ricavati da un grosso tronco segato all’ altezza di 80 cm e poi svuotato internamente con scalpelli da legno.

Quindi, dentro questi contenitori venivano triturate con stanghe di legno munite al fondo, di una corona con punte di acciaio e, ad avvenuta frantumazione, in tutte e due le maniere descritte, le bucce secche triturate venivano estratte mediante apposite tavole concave dette “vassore”, tramite l’ aria che si produceva lanciando le castagne in alto e facendole ricadere, fino a che non erano ben pulite e pronte per essere trasportate al mulino per la macinatura, dalla quale usciva dolce farina.

I boscaioli ed i carbonai

Il boscaiolo è un mestiere antico come l’ uomo, che fin dalle sue primitive origini e per millenni ha dovuto tagliare o sradicare alberi per ricavare legna da scaldarsi, costruire capanne per alloggiarvi, costruire mobili, scale, e utilizzarlo per moltissime altre attività .Poi si iniziò, in tempi abbastanza recenti ,a carbonizzare il legname, bruciandolo con pochissima aria, perchè esso divenisse molto più leggero da trasportare e di maggiore utilizzo, e anche per bruciarlo senza fumo nelle abitazioni di città e dei centri abitati.
Gli abitanti della Valle facevano il carbone da legna o carbone vegetale non solo in Corsica e Sardegna ma anche nella valle del Randaragna.
qualcosa si guadagnava, anche perchè erano esperti del mestiere. Il lavoro aveva inizio in primavera, quando i tagliaboschi preparavano tronchi di quercia, cerro , castagno e faggio ,presenti in abbondanza in tutta la valle. In aprile i tronchi tagliati venivano portati in quelle aree (piccole piazzole o radure pianeggianti), che servivano come aie carbonili per costruirvi le carbonaie . La costruzione della carbonaia era abbastanza complessa e richiedeva alcuni giorni di preparazione, alcune raggiungevano anche i tre metri di altezza. La struttura prevedeva la costruzione di un camino centrale (nel mezzo della piazza si formava un castello di quattro o cinque pertiche , in genere lunghe tra i due metri e mezzi e i tre, piantate in terra verticalmente, alla distanza di 30-40 cm l’ una dall’ altra e legate tra loro),su cui vi si appoggiavano verticalmente o leggermenti inclinati a regola d’ arte i pezzi più piccoli quindi crescendo quelli più grossi. Terminato questo piano ne veniva eretto un secondo, in modo uguale, ed infine sopra questo secondo strato venivano disposti altri pezzi di legna, come a formare un tettto spiovente. Infine ai piedi, e tutt attorno la carbonaia, veniva circondata da una fila di sassi fino a un altezza di 80 cm, dopodichè veniva ricoperta tutta la struttura con zolle di terra erbosa, lasciando libera solo l’ apertura del camino.
A questo punto la preparazione era terminata e si passava alla fase di carbonizzazione in cui la carbonaia veniva accesa con un braciere buttato dalla cima del camino insieme a ramoscelli secchi e trucioli accesi, quando il fuoco attecchiva anche il resto del camino veniva riempito con tanti piccoli pezzi di legna secca. All’ inizio la bocca del camino veniva laciata aperta perchè respirasse, poi veniva chiusa con una piolda. La carbonaia cominciava così a bruciare lentamente per la poca e calcolata aria che giungeva alla fiamma dagli sfiatatoi sottostanti. Dopo tre o quattro giorni la parte centrale della carbonaia era carbonizzata così venivano praticati dei fori , non troppo profondi, attorno al camino, in modo da ravvivare il fuoco. Il tempo di attesa dipendeva dalla grandezza della carbonaia, per le più grosse occorrevano anche 10-14 giorni per le più piccole ne erano sufficenti 4-5. Terminata la fase di carbonizzazione, in cui la carbonaia si abbassava visibilmente fino all altezza di un metro e mezzo circa dagli oltre 4 che poteva essere,occorrevano altri 2-3 giorni perchù il fuoco si spegnesse del tutto, e per aumentarne la velocità venivano tappati i fori praticati in precedenza.
L’ ultima fase, la scarbonatura avveniva con molta cautela , in quanto si doveva impedire che il vento potesse ravvivare qualche favilla, per questo le piazze da carbone venivano ricavate in luoghi isolati e riparati. Con un piccolo rastrello dai denti stretti(sumundino) si ripuliva la carbonaia dalla terra, quindi nel giro di due, tre giorni si raccoglieva il carbone, separandolo dalla bracina e dai tizzoni, e raccogliendo il primo come carbone di cannello e l’ altro come carbone di spacco.A questo punto il carbone veniva caricato in balle sul somaro e trasportao a valle per la vendita.

I pastori

La pastorizia ha avuto nei secoli passati, fino al dopoguerra, un’importanza grandissima per il sostentamento di queste popolazioni e per l’economia della montagna in generale. Nella valle del Randaragna non esistevano greggi numerosi, ma ogni famiglia possedeva una decina di pecore per il proprio fabbisogno. Complessivamente si parla di circa un migliaio di capi in tutta la valle. Mentre a Granaglione si era concentrata una maggior ricchezza, per effetto della migliore possibilità di comunicazione e di scambi commerciali, la Valle Del Randaragna, piu’ alpestre e isolata, è sempre rimasta in condizioni economiche piu’ misere. I pastori rimanevano in luogo solo durante i mesi estivi, in quanto in autunno il pascolo cominciava a scarseggiare, ed essi emigravano verso la Romagna o la Maremma. Questo avveniva in gran parte dopo San Martino (11 Novembre), terminata la raccolta delle castagne. Partivano gli adulti con i figli piu’ grandi, mentre in paese restavano i bambini e i vecchi a custodire il prezioso raccolto, che costituiva l’unico sostentamento durante il lungo inverno. Il viaggio, tutto a piedi, veniva affrontato da due o tre famiglie riunite e durava sei o sette giorni. Oltre alle tante difficoltà, c’era anche il pericolo di incontrare dei ladri appostati sul percorso, e secondo alcuni racconti succedeva anche che i pastori si lanciassero con i cani all’inseguimento, tornando poi ricoperti di sangue. Durante le soste notturne, se non c’erano casoni nelle vicinanze, si rizzavano recinti con reti e pali per raccogliere le pecore, e a turni si vegliava. Durante il cammino avvenivano scambi con i contadini nei loro poderi, dove l’ospitalità veniva barattata con lo sterco che le pecore lasciavano sui campi come concime, o con il latte e il formaggio prodotto dalle stesse. In Maremma ci si fermava da Novembre a Maggio, ritornando poi tra i monti. La figura del greggie e sempre accompagnata da un caratteristico suono: quello dei “campani”. Essi servivano per svegliare le pecore e farle sentire su per le macchie. Venivano messi solo a quelle che, per istinto, stavano davanti e guidavano il gregge. Le altre, sentendone il suono, lo seguivano belanti. Succedeva che alcune pecore si affezionassero ad un particolare campano seguendolo anche sugli scogli piu’ ripidi, suddividendo il gregge in “truppette”. Questo strumento era anche simbolo di prestigio, e spesso se ne utilizzavano un gran numero: al passaggio di questi greggi, l’effetto sonoro era indiscutibilmente suggestivo.
Scalpellini, molinari, canapini
Oggi si comincia a rivalutare l’architettura spontanea come espressione della cultura popolare, che in essa fonde il carattere sobrio della gente e la natura severa del paesaggio. Il duro mestiere dello scalpellino è una vera e propria arte, patrimonio dei nostri monti, di cui si possono ammirare numerosi esempi su architravi, pareti e caminetti di case e casoni. Per la loro costruzione si usavano i materiali che la natura offriva, senza ispirarsi a nessun tipo di architettura classica, ma basandosi solo sul tradizionale gusto. Tuttavia, pur nella semplicità delle strutture, si nota talvalta l’estro creativo dove la mano, guidata da chisà quali reminiscenze, ha tracciato fregi e disegni: nodi Gordiani, stelle a sei punte, stemmi, simboli religiosi, millesimi. Il lavoro dello scalpellino è duro come il sasso di cui si serve, eppure richiede la finezza e la sensibilità di un cesellatore. Lo testimoniano tante piccole tracce che si trovano ancora oggi quando si pone mano alla demolizione di un vecchio muro, mescolate con incuria al materiale grezzo quasi che l’uomo non vi avesse segnato la sua impronta. Fortunatamente qualcuno sta riscoprendo e valorizzando questo patrimonio culturale.
Molto diffusa nella nostra valle era anche l’ arte dei canapini.
Molte famiglie avevano il loro telaio per sopperire al fabbisogno domestico e per l’esercizio di un modesto commercio. Qualcuno dai Boschi e da Biagioni andava in Toscana a pettinare la canapa. A Sambucedro, Casa Santini, Casa Canna si ricordano anche piccoli laboratori artigianali con sei o sette operai: ma erano casi isolati. La canapa grezza s’andava a prendere a Bologna coi muli. Le fasi della lavorazione comprendevano: pettinatura, filatura, tessitura e lavatura finale.
Preti e mulini in quei tempi duri erano sinonimo di un invidiata sicurezza; e la farina non mancava certo in casa dei molinari: essi infatti venivan pagati con la “molenda”: il 6% del macinato. Sui nostri monti ogni fosso aveva il suo mulino, e , secondo l’abbondanza dell’acqua, anche due o tre lungo lo stesso corso. Per macinare le castagne si usa lo stesso procedimento del grano. Importante è impostare la macina in piano, e per questo si usa la “randa”, un bastone fissato all’albero centrale con un chiodo all’estremità . Facendolo girare intorno come la punta di un compasso deve sfiorare allo stesso modo tutta la circonferenza della macina, altrimenti vuol dire che l’albero è storto, e la macina non è in piano. La macina in movimento fa oscillare la tela della tramoggia e fa cadere le castagne nella mola. Con un registro si può accelerare la caduta, e con un altro regolare la macina per ottenere farina della finezza desiderata. Se le castagne sono verdi, cioè non seccate bene, “impastano” la macina; in questo caso, per non “impastare” continuamente, dopo aver smontato e pulito la macchina, l’unico rimedio è alzare il registro e fare farina “ruvida”, cioè piu’ grossa e di mino valore. Dentro il mulino è tutta una nebbia di farina: le pareti di legno ne sono ricoperte, come gli abiti e il volto del mugnaio. E’ un ambiente caratteristico: la macina prevale sulla casa, lo scroscio dell’acqua accompagna anche il sonno; di giorno l’uomo ritrova l’antica alleanza con l’acqua e la pietra: il suo lavoro si fonde con la natura.